Non era neppure stato scelto il progetto, quando il 22 aprile 1860 - a poco più di un mese dal plebiscito con cui la Toscana si era unita al Regno di Sardegna - Vittorio Emanuele II e Cavour arrivarono a Firenze, al Duomo, per la posa della prima pietra della nuova facciata. Da quella cerimonia solenne all'avvio effettivo dei lavori trascorsero ben sedici anni: i primi dell'Italia unita, alla quale la facciata stessa renderà poi omaggio nei suoi colori, bianco e verde (che riprendono il resto dell'edificio e il campanile di Giotto) più striature di pallido rosso, allusione alla bandiera nazionale.
Della necessità di una facciata per la Cattedrale la città aveva ricominciato a parlare nell'ultimo scampolo di governo lorenese. Ma era una questione aperta dal Medioevo, e di secolo in secolo tornava d'attualità. Eppure c'era stato un tempo in cui Santa Maria del Fiore non aveva mostrato quel volto di nuda muratura cui l'aveva costretta Francesco I de' Medici (domani in regalo con Repubblica, solo nelle province di Firenze e Prato, la foto Alinari in cui si vede senza rivestimento). Infatti, prima che al tramonto del Cinquecento fosse spogliata per volontà granducale d'ogni antico vestimento (in attesa che un altro, più moderno e grandioso, gliene venisse confezionato), la chiesa aveva goduto di quello marmoreo realizzato su disegno di Arnolfo di Cambio tra il 1296 e i primi del Trecento. Costruzione incompiuta, poiché il cantiere non era riuscito ad andare più su del primo ordine. Perciò, dopo quasi tre secoli di stallo nei lavori, senza che fossero riusciti a portarla a termine né l'interessamento di Lorenzo il Magnifico e del figlio pontefice Leone X né il coinvolgimento nel progetto di Raffaello, Sansovino, Giuliano da Sangallo e Michelangelo, Francesco I aveva deciso di smantellare quell'aborto démodé - oggi ricreato a grandezza naturale nel Museo dell'Opera del Duomo - per sostituirlo con un'architettura che avrebbe dovuto lasciare il segno.
Probabile che su tale decisione avesse pesato il giudizio autorevole espresso a metà secolo da Giorgio Vasari nelle "Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori": significativo l'apporto di Arnolfo alla rinascita di un nuovo linguaggio architettonico, vi affermava infatti Vasari, ma dopo la venuta al mondo di Brunelleschi, la facciata del Duomo merita d'essere riconsiderata secondo il nuovo corso dell'architettura fiorentina. Solo che nessun disegno era riuscito a farsi benvolere da Firenze. Non quello di Buontalenti patrocinato da Francesco, che il fratello Ferdinando I accantonò appena prese le redini del granducato senza saperlo sostituire con null'altro di convincente, benché vi avesse coinvolto nomi di primo piano come Giovanni Antonio Dosio, toscano fortemente radicato a Roma, e Giambologna. Non era riuscito a far di meglio Ferdinando II, pur mettendo in campo comitati speciali di artisti coordinati dall'Accademia del Disegno e coinvolgendo, in tempi diversi, Gherardo Silvani e Pietro da Cortona. Perfino a Galileo venne sollecitato un parere sui vari modelli di facciata possibili, ma non è noto se e come lo scienziato si espresse.
Da metà Seicento, comunque, i discorsi sulla facciata si erano interrotti. Ripresero a inizio Ottocento, di pari passo con il revival del gotico. Chiacchiere di poco peso, dapprima. Ma verso il 1840 a smuovere le acque fu Niccolò Matas, futuro autore della facciata di Santa Croce, che presentò una sua idea di completamento. Decenni di discussioni si innescarono allora, quelli che alla fine - nel 1870, addirittura - condussero alla scelta del progetto di Emilio de Fabris. Lui, destinato però a morire prima di poter vedere compiuto il suo capolavoro, aveva speso gran parte dell'esistenza a ragionare su quale fosse la soluzione migliore per la facciata. Con poche distrazioni: una nuova scala per la Biblioteca Laurenziana, l'ampliamento di villa Demidoff a Pratolino, la trasformazione del palazzo della Crocetta in museo (l'attuale Archeologico), la tribuna del David all'Accademia.
Negli anni intercorsi tra le proposte Matas e de Fabris, la città assistette alla disputa fra due fazioni inconciliabili: quella che voleva la facciata a una cuspide, secondo il modello basilicale, opposta a quella che la voleva a tre cuspidi. Servirono diversi concorsi pubblici, e l'esame di decine di disegni inviati da architetti italiani e stranieri, per arrivare alla selezione del progetto di de Fabris, tricuspidale alla maniera delle Cattedrali di Siena e Orvieto - e con un apparato decorativo concepito dal filosofo cattolico Augusto Conti su tema mariano. Esito scontato, dato che la commissione valutatrice aveva dichiarato la propria predilezione per quella tipologia.
Tuttavia i fiorentini ebbero da ridire e - morto de Fabris nel 1883, passata la responsabilità del cantiere a Luigi Del Moro - furono loro a dovere stabilire per referendum quale soluzione adottare. E non dovettero basarsi soltanto su un disegno, dato che entrambe le versioni del coronamento vennero realizzate e affiancate, cosicché per un breve periodo Santa Maria del Fiore sfoggiò, oltre alla cuspide centrale, un'altra cuspide a sinistra, mentre a destra aveva la copertura, piatta, con ballatoio, che fu infine quella prescelta del popolo. Per terminare i lavori della facciata (inaugurata nel maggio 1887) servì una marea di quattrini, e anche i Savoia e la Curia romana contribuirono con donazioni. Ma perché ogni cosa fosse davvero a posto si dovette aspettare ancora un po': l'alba del Novecento, quando alle porte lignee furono sostituite quelle in bronzo.