Sulla facciata della casa che abitavano Angiolina e Alfonso ultimi mugnai «doc» di una dinastia di mugnai «doc» , è incisa la data 1758. Intorno, a pochi metri, ci sono i mulini. Due sono in ottime condizioni e pronti all’uso. Il terzo è in buono stato, ma non funzionante. Il quarto va ristrutturato. Siamo a Falciano, un gruppo di case in pietra lungo la strada che da Subbiano (Arezzo) conduce verso l’Alpe di Catenaia (1414 m), territorio di mezza montagna, ricco di castagneti e punto di congiunzione tra la Valtiberina e l’alto Casentino, ma pure uno dei bacini idrici più importanti d’Italia: da un parte scorre il Tevere, dall’altra l’Arno. Al centro il torrente Chiassa che pochi conoscono.
È un rivo grintoso e per oltre due secoli fattore chiave nell’economia del territorio. Parte delle sue acque si riversano nel Baregno, un piccolo canale costruito all’inizio del Settecento (in cui l’acqua scorre lentamente) per alimentare i bottacci, le vasche di raccolta che servono i mulini. Da lì l’acqua, di nuovo incanalata, scende nelle chiuse dove si trovano le ruote a pale (fatte a cucchiaio) che azionano le macine a pietra. Sulle tramogge (contenitori fatti a imbuto) finiscono i chicchi dell’antico grano Verna, il granturco e le castagne di Catenaia, dopo che sono state messe a prosciugare per 40 giorni nei vicini seccatoi. I mulini di Falciano hanno la particolarità di essere in successione e alimentati dallo stesso corso d’acqua. Sono unici nel loro genere, almeno in provincia di Arezzo e nel Casentino. Un’opera d’ingegneria idraulica giunta a noi grazie alla devozione delle famiglie Lazzeri e Mattesini (che dei loro mulini fanno un uso solo familiare). Loretta ha 71 anni e ha ereditato il mulino dal marito Marino. Ne va fiera. «Fino agli anni Cinquanta, servivano i contadini locali che portavano grano e castagne nelle tregge trainate dalle chianine. Conservo ancora i sacchi con le iniziali delle varie famiglie. Qui tutto è originale, anche le bilance dell’epoca napoleonica».
Pale in legno di quercia
I mulini richiedono molta manutenzione. Le pale a cucchiaio delle ruote sono di legno e delicate. Vanno sostituite spesso. E non si comprano al supermercato. Ex capostazione in pensione, Furio (65 anni) ha imparato a costruirle da solo. «Mi ricordo che da piccolo veniva dal Casentino un uomo che di lavoro costruiva pale. Viaggiava di mulino in mulino. Oggi sono rimasto solo io. Un autodidatta. Costruire una pala è impegnativo. Servono tronchi di quercia di almeno 55 centimetri di diametro. Vanno divisi in quattro parti e ognuna stagionata in acqua per almeno tre anni. Poi, ogni pezzo va scavato a forma di cucchiaio. Anche il rotecine, l’albero su cui si fissano le pale, deve essere di legno stagionato. Ne costruisco di continuo per non rimanere senza. I vari elementi li metto a stagionare nel bottaccio».
La macinatura dipende della pioggia
I mulini non funzionano tutto l’anno. »Dipende dalla pioggia. La scorsa estate il torrente si è quasi prosciugato e abbiamo dovuto aspettare fine ottobre per fare la farina di castagne», dice il fratello Alberto. Anche la macinatura ha un rito. «Il botaccio si svuota in 40 minuti e per riempirsi di nuovo servono almeno tre ore – dice Furio – I nostri nonni si alzavano di notte per controllare il flusso dell’acqua. Quando macinava un mulino, macinavano anche gli altri, per avere il massimo rendimento». I rotecini dei mulini di Falciano hanno 13 pale che in media vanno cambiate ogni tre anni. «Vorrei insegnare a qualche giovane come costruire le pale per non perdere la tradizione» dice Furio che ha iniziato a macinare quando di anni di ne aveva quattordici. Poi alza il dito verso una vecchia foto: «Io sono quel bambino li, accanto a mio padre Alfonso». Intanto, sulla tramoggia (su cui è fissato un santino con l’immagine della Madonna del Conforto, venerata in Arezzo il 15 febbraio per aver protetto la città dal terremoto) riversa un sacco di farina Verna. Le macine vengono azionate attraverso un palo che fa da chiave e regola il flusso dell’acqua. Si alza una polvere leggera, poi la farina scende veloce verso i cassonetti pronta per essere imballata. Fuori, il bottaccio inizia a svuotarsi ed emergono le pale messe a stagionare. Furio ne ha preparate di nuove. Le getta in acqua. Tornerà a prenderle tra tre anni. Poi si sale verso il Baregno, nel punto in cui il torrente Chiassa è stato incanalato, oltre tre secoli fa. Un’opera ancora oggi all’avanguardia.
«I mulini a pietra sono stati una realtà importante per il basso Casentino. Solo nel comune di Subbiano ce ne erano una decina, ma in funzione sono rimasti solo questi di Falciano. Lungo il corso casentinese dell’Arno, poi, ce ne erano anche a tre macine e fino al 1800 c’erano abbinate le gualtiere, delle vasche dove venivano battuti i panni di lana per renderli più consistenti», dicono Luciano Maestrini (per 15 anni sindaco di Subbiano) e Lia Rubichi autori del volume «Catenaia e catenaioli. Storia di un paese e del suo bosco, la bandita dell’Alpe» (editrice Selecta). «I mulini di Falciano servivano i poderi circostanti coltivati a grano, cereali e biade. Le castagne erano un alimento fondamentale perché erano il pane dei poveri. A Falciano viveva una comunità di circa mille persone, oggi rimaste poco più di 300. Un’area tutta da riscoprire per i suoi aspetti storici e per i panorami magnifici che vi si godono. Adesso stiamo lavorando ad un nuovo volume dal titolo “Subbiano da podesteria a comune” sull’evoluzione del paese dalla dominazione fiorentina al 1946».
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